Sul Catuozzo, l’artigianalità e le comunità temporanee

Daniele Bucci
8 min readAug 27, 2020

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Sono tornato da qualche giorno dall’esperienza totalizzante del Catuozzo a Calvanico, per perdere meno ricordi possibili ho scelto di scriverli qui e condividerli con chi avrà il piacere di leggerli. Se vi aspettate risposte o pensieri risolutivi purtroppo non li troverete.

Cosa è il Catuozzo?

Il Catuozzo è un metodo che si adottava tradizionalmente in Campania per creare carbone da legno proveniente dalla pulizia dei boschi. Il carbone ha il vantaggio di poter essere trasportato in maniera più semplice, pesa di meno e può essere portato in buste, vantaggi enormi in tempi di mobilità ridotta sugli appennini campani. Attraverso una combustione pirolitica, il legno, non si trasforma in cenere, ma viene trasformato in carbone. Per fare ciò si crea una struttura semisferica di legno, sulla quale si poggiano rami verdi con foglie, felce, zolle di terra tenute insieme dalle radici dell’erba e terra. In questo modo il legno è coperto il e può bruciare con meno ossigeno possibile. Si accende la struttura mettendo braci al suo interno e si lascia cuocere per 2–5 giorni, facendo attenzione a tutti i possibili smottamenti, fori, fiamme che possono venirsi a creare. Durante i primi giorni si fanno anche dei turni durante la notte!

Cosa è il Catuozzo oggi?

Ovviamente ai giorni nostri questa pratica si è praticamente persa, non conviene economicamente, il bosco si pulisce con meno frequenza di prima, i paesi si sono spopolati, non ci si riscalda più con il carbone che è diventato un vezzo da barbecue a bassissimo prezzo. Il Catuozzo come l’ho vissuto è una pratica comunitaria, il suo output non è esclusivamente il carbone, è l’esperienza che viene passata dalle generazioni antiche a quelle contemporanee, è un momento d’incontro tra contesti sociali diversi, persone di città, di campagna, di paese, di età molto diversa, con radicamenti territoriali differenti, è un esperimento di auto-organizzazione sociale, dove dato un contesto, poche regole, i partecipanti devono trovare il modo migliore di convivere aiutandosi vicendevolmente, ultimo e non meno importante è un’esperienza sensoriale, fatta di odori, sapori e colori molto lontani dalla quotidianità.

Aspettative

Sono arrivato in quel contesto consapevole che avrei trovato tante persone con le quali confrontarmi su temi che mi stanno a cuore per il mio lavoro e per le mie passioni. C’erano, musici, professori, studiosi, imprenditori, insegnanti di yoga e meditazione. In questo periodo mi sento molto confuso, ho realizzato che tutta una serie di movimenti, pratiche e contesti che nei primi anni 00 e 10 trovavo estremamente interessante seguire per via delle enormi potenzialità di cambiamento sociale che esprimevano, pian piano sono stati riassorbiti in una società sempre più iniqua e individualista.

Sono arrivato con tante considerazioni e domande che sapevo avrebbero risuonato con i presenti, domande che per molti non avranno senso, ma che hanno segnato in qualche modo lo sviluppo del mio pensiero negli anni di studio e nei primi anni di lavoro. Queste domande riflettono in maniera ampia su quelli che sono i movimenti decentralizzati e distribuiti, che appunto nei primi anni 2000, con la diffusione di internet sembravano estremamente promettenti. Alcune di queste domande sono:

  • Perché gran parte dei movimenti decentralizzati risultano poco efficaci e nella maggior parte delle volte diventano oligarchie celate oppure collassano per mancanza di cura da parte dei partecipanti? Risulta così controintuitivo per gli individui non seguire eroi e sacerdoti e seguire processi in cui il potere viene ridiscusso e rielaborato ad ogni ciclo?
  • Cosa fare ora che l’etica hacker per la gran parte si è trasformata in anarcocapitalismo e tutto quello che ne conseguiva in termini di open source, free software, ma anche dal punto di vista più ampio di design distribuito attraverso il movimento maker è stato trasformato in estrattivismo puro, strumenti di sfruttamento per avere lavoro gratuito, oppure semplice elemento di comunicazione per vendere una estetica vuota?
  • Alla fine quindi la sharing economy è morta prima di nascere, trasformata in economia dei lavoretti, attraverso piattaforme centralizzanti che catturano valore da territori e lo trasferiscono spesso in paradisi fiscali? Che fine hanno fatto le piattaforme cooperative, ma sono mai esistite?
  • Il futuro è stato reinventato? Ci sono automi che lavorano per noi e generano ricchezza che possa essere ridistribuita per liberare il nostro tempo ed emanciparci dal lavoro?
  • Ok, tutto questo è stato riassorbito, è anche normale, ma cosa si è creato nel frattempo? Ci sono segnali deboli che indicano direzioni interessanti?

La confusione ovviamente è rimasta e rimarrà, forse le domande non sono nemmeno rilevanti, o forse sono domande rilevanti solo per una nicchia irrilevante di persone.

Pratica, natura, territorio.

Per fortuna per me le pratiche cambiano i punti di vista più in profondità di quanto possa fare la pura teoria. Fare con le mani, osservare, apprendere per emulazione, ripetere le stesse gestualità per ore, danno la possibilità di svuotare la mente e consentire ad altri pensieri di farsi spazio.

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868–1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più!».

«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?».

Ho iniziato ad osservare e ascoltare maggiormente, ero arrivato con così tante aspettative che mi stavo perdendo ciò che quel luogo poteva esprimere.

Ho visto quindi la grande passione di persone che vivono il territorio, quelle aree interne nelle quali da anni si creano progetti che innovano partendo dalla tradizione, che lo fanno su piccola scala per non snaturarlo, che attraggono sul passaparola e che forse potrebbero scalare, ma non potrebbero farlo se non trasformandosi in altro.

Si tratta di un rapporto molto delicato tra il territorio, le sue peculiarità naturalistiche, quelle sociali, culturali e storiche e le persone che lo abitano.

Artigianalità

Ho avuto la possibilità di osservare la ricchezza relazionale presente sul territorio:

C’è Michele che porta avanti l’agriturismo L’Incartata a Calvanico, che inserisce contenuti divulgativi all’interno dei tornei di carte che organizza per le persone del paese e che fa parte della cooperativa sociale Terre di Resilienza insieme ad Antonio che da anni ricerca i grani antichi locali, che ha realizzato il Palio del Grano a Caselle in Pittari e gestisce la pizzeria a Sicilì, frazione di Morigerati, dove da anni i ragazzi e le ragazze di Recollocal organizzano Transluoghi residenza di riflessione sulle aree interne, lo stesso gruppo di persone che hanno creato Mediterranea Canapa, che coltiva canapa sul territorio ridistribuisce il surplus per progetti sociali. Poi c’è Alex che continua a stimolare il territorio con idee nuove e che da anni cerca attraverso Societing 4.0 di formalizzare un modello mediterraneo di innovazione sociale, facendolo in pratica, mi ha colpito profondamente una sua frase che provo a riassumere così: “Per lavorare in questo territorio non puoi essere un estraneo, devi guadagnarti la fiducia delle persone, per farlo devi ascoltare ed essere presente, devi mangiare con loro, andare ai matrimoni e anche ai funerali!”

Nel tempo (ormai è la 5° estate consecutiva che mi ritrovo a passare in territorio campano) ho avuto modo di osservare le loro doti artigianali nella creazione e nel mantenimento di rapporti con il territorio e con le persone che lo popolano. Mi ha colpito molto che si sia parlato diverse volte di innovazione sociale, parola che non sentivo da tempo e per la quale, pronunciandola, si prova una sorta di imbarazzo, come se dopo essere stata inglobata nella cultura startuppara avesse perso completamente il suo senso; social invecchiation come ripeteva scherzosamente Simone durante i giorni passati a Calvanico.

Ma quindi?

Per noi che puntiamo alla qualità e alla genuinità dei progetti territoriali sui quali lavoriamo è importante sviluppare ancora di più un approccio artigianale, che possa generare in noi la soddisfazione e la pienezza dei rapporti, un approccio in grado di migliorare con il tempo e la dedizione, che trasformi l’esperienza in sensibilità.

I progetti devono sempre essere contestualizzati nel territorio, le stesse organizzazioni devono assumere strutture, strumenti e processi che sono coerenti con le persone, la storia, la cultura, i colori, la flora e la fauna di un luogo. Ci raccontiamo da anni che le organizzazioni devono essere glocali, locali nelle forme, globali nella raccolta di informazioni, ma ricordarlo non gusta mai.

Bisogna uscire dagli schemi che ci vengono imposti e dalle aspettative. Sono stato molto contento che quest’anno con me sia venuto un mio amico, Alarico, che con tutte queste cose non c’entra nulla, erano anni che provavo a portare miei amici in questo genere di contesti, ma è sempre difficile spiegarli: “Che posto è, che si fa?” “Si fa il carbone, si parla tanto, ci sono famiglie con bambini, bisogna preparare il pranzo per tutti, si mangia il cibo locale prodotto dalle persone che incontrerai, magari passa qualcuno a insegnarti a fare il lievito madre, o il pane, o i cesti con i rami, magari incontriamo qualcuno che ci insegna la tammurriata (grazie Gaetano), ecc, ecc, ecc… Sicuramente un contesto lontano dalle codifiche di vacanza, credo proprio che Alarico sia riuscito a rinunciare alle aspettative e agli schemi di dover “sfruttare” al meglio la sua unica settimana di ferie!

Che l’educazione alla collettività è qualcosa di importante, direi qualcosa di centrale, mi ha colpito molto ad esempio il cortocircuito che si è creato mentre si facevano lezioni di yoga durante i lavori al Catuozzo, una pratica di benessere dell’individuo, per qualche ora ha spaccato la collettività, fra persone chinate a raccogliere il carbone e altre riunite praticando il proprio benessere che spesso non trova tempo nella quotidianità della vita urbana. Il primo giorno ero io a fare yoga e ho provato un fortissimo disagio a vedere quella spaccatura. Poi le cose sono cambiate, sicuramente con l’aiuto di tutt* i sacchi di carbone si sarebbero potuti rimpire in meno tempo, ma non si può controllare il volere degli altri, pretendere che sia sempre allineato con il nostro stesso volere genera solo frustrazione. L’educazione alla collettività non passa solo per la definizione della governance, dei sistemi di presa di decisione, di divisione di compiti e ruoli, ma anche e soprattutto dalla comprensione, la mediazione e il conflitto con le altre persone, passa nel riconoscere i nostri bias ed essere in grado di fare un passo indietro.

Credo che sia questo che le scuole dovrebbero insegnare, le nozioni sono immagazzinate in altri sistemi di memoria che possiamo velocemente consultare, è importante riuscire a comprendere il contesto nelle quali le cose sono avvenute e avvengono, che si parli di atomi, molecole, ecosistemi o società. La qualità dei rapporti comunitari e sociali definiscono la qualità della nostra vita e di quello che facciamo, la nostra possibilità di aver passione e di imparare, ma in questo caso bisogna sviluppare sensibilità.

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Daniele Bucci

I’m a systemic designer and a researcher in social innovation, working on sustainability, platform economy, network science, permaculture and more.